La prova del DNA a venticinque anni dalla sua scoperta

Doriana Rodino

Sir Alec Jeffreys è un nome sconosciuto ai più, eppure questo genetista inglese (nato a Oxford nel 1950) scoprì una tecnica che oggi è su tutte le pagine dei giornali, oltre che al cinema e in televisione: stiamo parlando del DNA fingerprinting, “l’impronta digitale” genetica. Il suo “eureka” è stato lanciato esattamente alle 9:05 di lunedì 10 settembre 1984 in un laboratorio di Leicester e gli è valso in seguito il prestigioso titolo di baronetto. Ma in che cosa consiste e funziona davvero? Se si pensa che l’uomo condivide il più del 98% del suo DNA con quello di uno scimpanzè sembra difficile che analizzandolo si possano scoprire molte differenze; se poi invece si confrontano i DNA di due esseri umani allora la somiglianza sale al 99%: come distinguere con sicurezza due persone con così poco materiale in cui cercare le differenze?

Scienza e diritto

La scoperta è subito divenuta parte delle cosiddette scienze forensi, quelle che sulla base di prove raccolte nei luoghi di delitti, tentano di risalire in modo certo a un colpevole. Ma qui ci si trova di fronte a un primo grosso ostacolo, che è il rapporto tra la scienza e il diritto. I giuristi per poter prendere una decisione, hanno bisogno della certezza assoluta, mentre per lo scienziato una cosa è certa finché non nasce una tecnologia o si fa una scoperta nuova che la può confutare. Il rapporto scienza e diritto è subito messo in difficoltà anche perché nei primi processi che hanno utilizzato la prova del DNA, spiegare ai giudici e alla giuria alcuni fatti biochimici non deve essere stato facile, così come accade quando due professionisti di campi diversi si incontrano: il linguaggio è talmente specializzato che molte cose si danno per scontate e la reciproca comprensione tarda a essere raggiunta.

Primi risultati

Meno di un anno dopo la scoperta arriva la pubblicazione sulla prestigiosa rivista  Nature e la conseguente accettazione da parte della comunità scientifica. L’articolo capita tra le mani di un avvocato inglese con contatta Jeffreys per usare la tecnica in tribunale per la prima volta. Si trattava del caso di un ragazzo del Ghana, che si pensava clandestino mentre la madre affermava essere suo figlio. Primo successo e grande esposizione mediatica su The Guardian che dichiara come il test genetico abbia risolto una disputa sull’immigrazione. Dall’altra parte dell’oceano nel 1984 Kirk Bloodsworth viene incarcerato per stupro e omicidio di minore: si dichiara innocente ma nulla può provarlo, tranne questa nuova tecnica. Verrà liberato grazie alla prova del DNA dopo altri nove anni passati ingiustamente in carcere.

The Innocence Project

A seguito di eventi del genere è nata un’associazione dal nome Innocence Project che si occupa di assistere le persone come Kirk: sul loro sito (www.innocenceproject.org) c’è un contatore che segnala i casi risolti, cioè le persone a cui è stato evitato l’ergastolo o la pena di morte grazie alla prova del DNA: finora sono 245.

Da un quarto di secolo la prova  del DNA è sempre più presente nelle cronache, anche italiane: si pensi che il boss della mafia, Bernardo Provenzano è stato catturato nel 2006 proprio grazie a un’analisi del suo DNA proveniente da un vetrino che conteneva una sua biopsia conservato in un ospedale francese dove si era fatto operare sotto falsa identità. Si pensi ancora a come questa tecnica abbia permesso di riconoscere le vittime delle Torri Gemelle e di altre tragedie come lo tsunami delle Filippine o stragi aeree.

Ma come tutte le cose condotte dall’uomo anche la prova del DNA non può essere considerata infallibile, prima di tutto perché dipende molto dai tecnici e dai macchinari che compiono l’analisi, poi perché la statistica non è sempre a favore delle evidenze biologiche: un caso d’esempio è stato quello di O.J. Simpson, accusato di aver assassinato l’ex moglie e un suo giovane accompagnatore nel 1994. La squadra di avvocati che una star del cinema e dello sport ha messo in campo non ha precedenti: e infatti, viene liberato grazie a cavilli che escludono la certezza della prova del DNA.

 

Quando si usa?

Dalla sua scoperta a oggi la tecnica è stata usata nei casi più diversi: dal riconoscimento dei nipoti dei desaparecidos da parte delle abuelas argentine di Plaza de Mayo, alla determinazione degli appartenenti alla dinastia del Romanov. Fino al caso della madonnina di Civitavecchia che piangeva lacrime di sangue: sì, sangue con un bel cromosoma umano Y (maschile) dentro, che però non si è mai potuto paragonare con quello dei proprietari della statua che hanno sempre rifiutato di sottoporsi all’analisi del DNA.

L’importanza di questa tecnica però è fondamentale in biologia, per lo studio della genetica delle popolazioni, ma soprattutto in medicina, nel caso delle malattie genetiche: si possono fare esami in grado di determinare se si è portatori di una malattia e quindi certamente la si svilupperà o se la si trasmetterà ai figli, permettendo quindi di capire le modalità di trasmissione ereditaria e le possibili  cure.

Salute e privacy

Ma si potrà anche solo scoprire si ha un gene che predispone a una certa patologia: e la predisposizione non significa malattia certa. Questo fatto ha turbato parecchie coscienze: potrebbe capitare in futuro che un’assicurazione ci rifiuti una polizza sulla vita se siamo portatori di un gene che potrebbe provocarci un tumore; oppure un datore di lavoro potrebbe licenziarci o non assumerci se abbiamo il gene che predispone all’alcolismo. O ancora potrebbe saltar fuori che abbiamo la corea di Huntington, una malattia genetica degenerativa di cui non esiste terapia, che si sviluppa di solito dopo i 35-40 anni: vorremmo sapere a vent’anni che ci aspetta un futuro senza possibilità di cura? La cosa più auspicabile è che la queste analisi vengano sempre usate nel migliore dei modi e soprattutto che si decida e applichi una seria e attenta gestione alla nostra futura banca dati del DNA italiano.

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