“Buongiorno, Maestro. Benvenuto a Finale Ligure.”
“Buongiorno, grazie dell’invito.”
Ramin Bahrami si presenta così, con semplicità.
La sua cravatta annodata di fretta tradisce la distrazione letteraria e stereotipata del genio.
La troupe della RAI allestisce il set per l’intervista, il giardino dell’hotel è talmente ricco di angoli suggestivi che resta l’imbarazzo della scelta.
La vista sul golfo di Finale poi è mozzafiato e la mattinata è di sole tiepido, un viaggiatore del mondo come lui non può far altro che prenderne atto e restarne ammaliato.
Bahrami è rientrato a tarda notte da Milano dove ha tenuto un concerto ma la stanchezza non si percepisce nei gesti né nelle parole, aggredisce il microfono con piglio gentile ma con frasi arroventate di passione, le stesse che ribadirà nel corso della premiazione pomeridiana.
Ci fermiamo tutti, ascoltando quello che il vento primaverile non riesce a portarci via.
Bahrami è minuto, chiuso su di sé e nella sua musica, come in fuga da ogni cosa o persona che gli sta intorno.
È un’isola.
“C’è un pianoforte?” chiede senza indugi.
Viene accompagnato nel jardin d’hiver dell’albergo dove troneggia uno strumento a mezza coda.
Accenna un accordo: “… è scordato …” dice sorridendo.
Poi incomincia a suonare l’Invenzione di Bach BWV 779 con quel gesto che conosciamo.
Tutto resta immobile, eccetto le dieci dita del Maestro.
L’impressione è che stia raccogliendo le idee su ciò che eseguirà nel pomeriggio per illustrare al pubblico cosa sia la fuga musicale.
Dopo un brevissimo ritenuto, si appoggia all’accordo finale e alza lo sguardo. Gli occhi sono rivolti a noi pochi che applaudiamo ma la sua mente è ancora là, ferma sulla tastiera.
“Grazie, Maestro. Ci vediamo nel pomeriggio.”
“Grazie a voi per tutto.”
L’Auditorium è ancora vuoto, sul palco della struttura in legno come sempre addobbata a festa è situato uno Steinway Gran Coda. A fianco ad esso si erge Ramin Bahrami, si posiziona in modo che lo spettatore riesca a vedere la tastiera e le luci non lo infastidiscano.
E suona.
“Mi piace l’azzurro” dice; e i tecnici colorano l’atmosfera di un azzurro che ricorda tanto il mare di Pessoa e – chissà – forse anche quello di Lampedusa.
Quando il pubblico entra ed affolla la sala, l’attesa cresce.
Poi l’applauso che accoglie Bahrami.
Da mille e più chilometri di distanza il Sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini compare in collegamento skype sul maxi-schermo e saluta l’uditorio.
Uno scroscio di mani solidali riempiono l’aria e rimbalzano a mille e più chilometri.
Bahrami si siede al pianoforte e come empatico gesto di saluto esegue il tema delle Variazioni Goldberg.
“Questo è un omaggio a tutta Lampedusa”.
Potenza della musica che con poche giuste note supplisce a milioni di parole. Il fiato resta in gola, ancora una volta tutto resta immobile a parte quelle dieci dita così sbrigative e maldestre a fare il nodo alla cravatta eppure così opportune sui tasti bianchi e neri.
Giusi Nicolini – si vede chiaramente – ha gli occhi lucidi. E non è irritazione da scirocco.
Quando due isole si incontrano e lo fanno in pochi minuti, non è tettonica né illusione.
È pura magia che nasce dalla combinazione di appuntamenti rari e meticolosamente preparati uniti alla casualità e al destino.
Il ritorno dalla fuga è sempre complicato.
Il tuo corpo è lì. La mente non ancora, ha bisogno di tempi più lunghi.
A volte accade che non ritorna.
“Nessun sogno finisce.
Posso forse sapere con certezza se non lo continui a sognare,
se lo sogni senza saperlo,
o se il sognarlo non sia questa cosa vaga che chiamo la mia vita?”
(F. Pessoa Il marinaio)
di Dario Caruso