La filosofia fece i suoi primi passi in cammino. Perché soltanto camminando il filosofo, che non sapeva ancora di essere tale, poteva esercitare i sensi e il pensiero. Poteva stupirsi. Dinanzi al bello e all’orrore. Poteva mutare luogo ai pensieri precedenti, assecondando il divenire degli incontri inaspettati e della strada. Ciò gli consentiva di iniziarsi ad interrogare e ad interrogarsi nella solitudine del viaggio. Avventuroso o quotidiano esso fosse. Non evitò le città, le agorà, i portici, le passeggiate, dove il maestro spiegava allo stuolo di allievi a “camminare con la mente”.
Il cammino del filosofare è un andare incerto e inquieto….
Il cammino del filosofare, di chi intraprenda il filosofare come stile di vita, allora come oggi, è un andare incerto e inquieto. Apprendere, interrogando le cose e dialogando, costituiva un piacere. Un ozio come virtù, non come vizio. Il piacere supremo, senza pari, di pensare senza scopi immediati. Non un dovere. Non a caso la tensione filosofica nacque – non scordiamolo – insieme alla poesia lirica, al canto e al racconto che un io narrante intonava per sentirsi “in” pensiero. Si perfezionò nelle strade di Atene con i dialoghi socratici; nelle dispute sotto i portici della sua accademia con Aristotele.
La scuola di Aristotele, di Gustav Adolph Spangenberg
Passeggiando nei giardini di Epicuro, conversando nelle piazze e lungo il lungomare di Alessandria e, in seguito, nella pace contemplativa dei chiostri monacali. Nei soliloqui dei romitori. La filosofia apparve quando qualcuno, camminando nella natura, dando un nome alle cose, si accorse che tutto diviene e si trasforma. Che sorte dell’uomo è il camminare inquieto alla ricerca di Dio, del mistero, dell’enigmaticità del tutto. La vita, l’esperienza, il contatto fisico, la voce diretta, sono sensi. Non surrogati.
Rieducarci al sensibile per un inusuale raccoglimento
E’ indispensabile quindi rieducarci al sensibile proprio iniziando a camminare realmente e metaforicamente. Guardandoci intorno, raccogliendo e rigirando l’oggetto più semplice tra le dita, gli diamo la parola, lo sentiamo, lo palpiamo. E’ corpo, ha consistenza, non ci delude. Ma impariamo così anche ad accettare le cose in sé, a riconoscerle e a rispettarle, ad affrontarle o a piegarci ad esse. Il camminar meditabondo genera sempre pensosità, voglia di conoscere, curiosità, inciampi, ritorni al punto di partenza. Vivendo il camminare, per il solo piacere poetico e filosofico di camminare a zonzo, secondo l’etica della flanerie, lo si esercita in un altro spirito: ci educa ad altre percezioni del tempo, alla essenzialità, al silenzio, a scrutare tutto quello che spostandoci in altro modo non vediamo. In un suo brano illuminante, il filosofo spagnolo Ignacio Gòmez de Liano, afferma :”Tutto ciò che l’io sa del mondo non proviene dall’io, ma dal mondo. Perfino tutto ciò che l’io sa di se stesso proviene dal mondo e da quella parte viva del mondo che è il suo corpo, la carne … per questo l’io può sentirsi e comprendersi solo mediante le cose – che – sente e le cose – che-comprende”. Il camminare ci insegna a contenere e a mitigare la nostra eccessiva, vorace, arrogante vanità.
Se il camminare, si declina nel peregrinare, ancor più ci dischiudiamo ai sensi, ad altre forme della percezione. E’ un’inusuale esperienza di raccoglimento interiore, è una modalità riflessiva e contemplativa. Qui, possiamo ritrovare nuovamente le origini stesse del filosofare e del suo incessante riproporsi in quanto manifestazione della tensione a non smettere di procedere: ora arrancando, ora godendosi la discesa o il piacere della salita. Una meditazione, questa, che non può che riscoprire, ogni volta, la bellezza dell’imperfezione, della mancanza, del passo che preferisce riposare sulla soglia, piuttosto che varcarlo. Poiché non si sa mai se, una volta giunti nella stanza più accogliente, avremo ancora voglia di riprendere il cammino. A quel punto, saremo (forse) più maturi, più sazi se non pingui di saggezza: ma non anche e forse più pallidi, più stinti, più spenti?
Migliorare la nostra umanità coltivando l’inquietudine
Nel rifuggire l’inquietudine, perseguendo le neo a-tarassie ( la calma) o le a-patie (la sofferenza) che tanto vanno di moda, si spegne la nostra migliore umanità. Si ferma quell’ andare incerto che elegge l’ incertezza a metodo del sapere. Per questo il filosofo non può che essere inquieto, la sua “serenità”, paradossalmente, è qui. Non possiamo usare la filosofia come un sonnifero, un antidoto, un lenitivo. La filosofia provoca l’insonnia della ragione, entra nella pesantezza e nella drammaticità della vita, non cerca farmaci. Poiché, se la sua è una inesauribile ed inesausta ricerca del senso, il senso svelato, ammesso che lo sia, è sempre inquietante poiché ci conduce dinanzi all’estremo crinale: alle domande sulla morte, il nulla, il vacuo. Solo l’inquietudine ci rende sentinelle esistenziali. Ruvide e scabre. Rifuggiamo perciò le edulcorate, sdolcinate, versioni di talune pratiche filosofiche odierne che, ecletticamente, anche per ragioni di mercato dell’ozio e dei piaceri interiori, si svendono all’estetismo delle comunità (anche sedicenti filosofiche) che vogliono stare bene ad ogni costo. La grandezza della tradizione filosofica mediterranea è la rinuncia alla pace interiore. Già nella esikia (l’assoluto stato di tranquillità) della meditazione neocristiana, le tracce dell’Oriente si riverberarono su una cultura che, da Socrate in avanti, seppe invece porre la tragedia al centro della umana essenza. La tragicità del vivere, poiché il vivere è transeunte e sfuggente ad ogni significato definitivo, non può essere barattata con una seduta di yoga o con una settimana in convento per “ricaricarsi” dimenticando. Quando occorrerebbe invece “caricarsi” di vita, interrogare la propria memoria, la propria storia. Mai svuotandosi, ma riempiendosi di problemi.
La forza del disincanto contro il benessere indecente
A questi movimenti d’opinione che perseguono il benessere, quando esso è indecente, se non è dato a tutti gli uomini, occorre reagire con la forza del disincanto: un sentimento che attraversa più volte la nostra vita. Si insinua dentro di noi lentamente, altre volte irrompe inaspettato. E’ la fine o lo sbiadirsi di un incantesimo, di una malia, di una passione, di una fiducia riposta in qualcuno. La sensazione è di disagio, disorientante. Eppure, al contempo, ci sentiamo più cresciuti. Ci coglie quando, una dopo l’altra, vengono meno sicurezze, miraggi, attese. Non è però sinonimo di disillusione. L’altra emozione che ci apre gli occhi, riportandoci alla realtà. Abbandonandoci alla nostalgia di quanto non abbiamo potuto avere od essere. Le illusioni sono dolci trappole nelle quali caschiamo; gli incanti sono invece stati di coscienza brevi o lunghi necessari alla mente. Per questo il disincanto può dar luogo ad un incontro più maturo con le cose e noi stessi. E’ un’esperienza evolutiva. Venuto meno l’incantamento, non facciamo altro che attendere che ritorni. Però più accorti e sapienti di prima. Il disincanto è un’approssimazione alle verità più crude che ci piacciano o meno. E’ occasione di raccoglimento. Rende più profondo il nostro pensare. Ispira voglia di pausa, di meditazione, di riflessione. La propria storia, le scelte compiute, gli atti mancati ne sono l’oggetto. La speranza non gli è nemica. Vivere con disincanto non è cessare di attendere. Superato lo spaesamento, accediamo ad un risveglio della coscienza, ad uno stadio più alto di consapevolezza Capiamo che l’incanto è nemico dell’attenzione vigile, della prudenza, della carità. Quando, distratti, ci dimentichiamo del mondo, degli altri.
Un incerto cammino dentro se stessi che ci rende più accorti
Entrare ed uscire da questa dimensione è accettare di rinnovarsi; è mantenersi curiosi, lucidi, indisponibili all’autoinganno. E’ apprendere l’arte del discernimento delle cose, una per una. Nella loro peculiarità e differenza. Contro ogni finzione, il disincanto ci educa a ridimensionare i nostri sogni. E’ una vocazione che ci rende più adulti, più capaci di ribellarci alle trappole dei tanti venditori di illusioni e dei venditori di certezze. E’ un cammino incerto innanzitutto dentro se stessi, ci rende più forti e più umani. E’ alla base di un’azione anche politica, nel ritrovamento di un’etica civile austera, non effimera, parca e antica.