Camminare per mantener desta l’inquietudine interiore

Il camminare, divenuto esercizio virtuoso dell’animo, ci riabilita alla esperienza diretta, al distacco dal superfluo, a interrogare l’orizzonte guardando piu al suolo che al cielo.

Camminare è ben più di quell’atto motorio, frettoloso o pacato, che ci è necessario. Ovvio e scontato, finché non venga meno.
È sufficiente ricondursi all’antico aforisma riscoperto da Miguel de Unamuno “la meta la costruisci camminando” per capire che – da millenni – a tale facoltà umana si sono attribuiti ben altri significati. L’incedere ha sempre espresso, e sintetizzato allegoricamente, la fatica di vivere, l’inquietudine per la meta da raggiungere, l’appartenenza a una specie che non può – in quanto tale – ribellarsi a ciò che le è toccato in sorte. Un instancabile andare e cercare, un inesausto sempre riprendere il cammino.
Per questo il camminare assunse, all’apparire della coscienza di esistere un valore ontologico. Fu e resta la più emblematica narrazione mitica, costitutiva della dimensione dell’essere come divenire, del percepirsi vivi, ancora attivi, disponibili a cambiare direzione basandosi soltanto sul proprio corpo. La vita come una strada, con un inizio e una fine, ne fu la rudimentale ulteriore rappresentazione. Inutile è perciò tentare di opporsi – dovettero pensare i primi camminatori – a una legge dettata da ignote potenze che impongono all’orda umana di espiare le proprie colpe sempre errando. Racconti, leggende, fiabe ci mostrano inoltre che l’andare a piedi non serve all’eroe soltanto per raggiungere uno scopo.
Scoprire le ragioni di tanto affanno: questa è la sua vera ricompensa. In tutte le tradizioni il camminare – prima del vagare per mare – fu dunque simbolo di un destino ineluttabile.
Lungo la via si cade, ci si rialza, si torna indietro, si fanno incontri miracolosi, si è aiutati da samaritani o ingannati da demoni. Mai rinunciando al moto solitario affidandosi ai propri arti inferiori – si scopre – che anche la mente, e non soltanto le membra, si rigenerano.
La nostra intelligenza non avrebbe potuto evolvere, se ogni comunità fosse rimasta stanziale, come è accaduto a non pochi popoli estintisi. Oltre che per altre ragioni, perché impossibilitati a mettersi in cammino, per pavidità, poca intraprendenza, spirito auto-conservativo.
Le nostre cellule non avrebbero moltiplicato le loro reti neuronali se non si fossero cimentate con problemi concreti da risolvere. Dai quali sarebbero state formulate le prime astrazioni, il pensiero ipotetico deduttivo, qualche progetto che avrebbe imparato a spingersi oltre la fisica delle cose verso orizzonti spirituali e ultraterreni.
Ma sempre già i nostri bipedi progenitori furono mossi da interrogativi che soltanto abbandonando un luogo, abitandone un altro meno ostile, più adatto alla caccia e alla pesca, più idoneo alla riproduzione, tra coincidenze favorevoli e prove ripetute, permisero loro di formulare nuove congetture e di decidere di riprendere il cammino. Questa eredità per fortuna ancora non ci ha abbandonati.
Tanto simile al lavorio del pensiero, il quale procede ora rettilineo, ora labirintico o finisce in un vicolo cieco, che ci costringe in modo fecondo a modificare strategie e la direzione dei passi; tanto dunque anch’esso somigliante al camminare.
L’andare a piedi per diletto fu però una conquista dell’età moderna. L’idea di libertà individuale venne associata – ad esempio da J. J. Rousseau – infatti al camminare non più circospetto e per vocazione religiosa. Ma al puro piacere di sentirsi esistere nel corpo, di esplorare il mondo, di guardarsi intorno. A patto che non si gareggi con qualcuno, non si cammini per agonismo.
Il camminare riscoperto oggi come alternativa esistenziale, come opposizione alla fretta, alla velocità, alle tecnologie dello spostamento è divenuto l’emblema di una critica alle tendenze (anche nell’attività sportiva) competitive predominanti. Scegliendo di camminare, all’opposto e con metodo, concedendoci una lentezza svagata – passo dopo passo – scopriremo l’ineludibile richiamo filosofico e poetico del camminare come arte e stile di vita.
Tornare a passeggiare nelle città ostili o nella natura per osservare, annotare, riflettere (e non correre a vendere o a comprare o a coltivar muscoli) o il vagare a zonzo (peregrinando in luoghi deserti) sono modi che ci riaprono a sensazioni ed emozioni dimenticate; al più puro contatto fisico senza alcuna mediazione meccanica.
Ci educhiamo a desiderare l’imprevisto, ad accettarlo, ad andargli incontro: qualunque cosa ci si pari dinanzi. Decidere di camminare, pur nei luoghi consueti, affidandosi all’istinto, all’estro, a quanto possa ancora turbarci, ai dubbi dei quadrivi, è esperire con pienezza e intensità maggiori l’istante che sopraggiunge. Vanno nascendo in tal modo le nuove metafore di una odierna filosofia del camminare.
È muoversi senza l’ansia di un profitto.
È ragionare meglio in quel silenzio che il cammino meditabondo sempre ci richiede. Camminare così, un poco ogni giorno per esercitarsi innanzitutto ai raccoglimenti dell’intelligenza, dell’immaginazione, del sentire, è recuperare la distanza necessaria per poter tornare nella folla.
Il camminare, divenuto esercizio virtuoso dell’animo, ci riabilita alla esperienza diretta, al distacco dal superfluo, a interrogare l’orizzonte guardando più al suolo che al cielo. Ma qui i modi di camminare si separano. L’etica del viandante solitario, senza santuari per traguardo, non quella preordinata del pellegrino, si ispira a compiti terreni. Il primo accetta l’incertezza e ingaggia discorsi con chiunque incontri per via, incurante di mappe e mete preordinate. Il secondo, sempre si mise e si mette ancora in cammino per espiare, cercare fonti miracolose, per obbedire a una chiamata ultraterrena. Accodandosi alla sequela devota e penitente, per amor di certezza.
Se però una ricerca di senso, insaziabile, non aliena al dubbio, guida entrambe tali figure, queste potranno raccontarsi storie interiori non del tutto diverse.
Michel de Montaigne ebbe a scrivere che il saggio – miscredente o devoto – deve imparare a “camminare verso se stesso” innanzitutto. Il camminare si trasforma allora in una migrazione invisibile della coscienza.
Purché la vigile perspicacia del viandante si convinca a esaminare il presente nel solco della sua memoria. Facendo di ogni passo un nuovo inizio, guardando dietro di sé con coraggio; accettando che la dimora alla quale spera di giungere, varcata la soglia, si riveli diversa da quella immaginata. La strada non cessa così di essere lo specchio più autentico della nostra irraggiungibilità.
L’immagine di me che cercavo, il luogo desiderato che saprà definirmi, non potranno perciò che assomigliare anche a ciò che ho lasciato e perduto. Scegliere di viaggiare camminando, includendo in qualsiasi viaggio momenti dedicati a questi scopi è, infine, una decisione che, oltre a offrirci stati di benessere ignoti ai non camminatori per diletto, muta le consuetudini della nostra vita fino al punto di cambiarci profondamente.
Ci dischiude a una diversa maniera di affrontare il presente e il futuro, le cui risonanze non potremo che avvertire anche nelle nostre esistenze diventate troppo schiave della routine e dipendenti dall’inseguire traguardi se non effimeri, troppo superficiali e passeggeri.
È in cammino che silenziosamente ritorniamo a visitare momenti diversi del nostro passato, che ci sorprende il desiderio di scrivere quei ricordi che hanno fatto di noi dei viandanti, degli errabondi e indomiti cercatori di quanto possa stupirci ancora e meravigliarci a ogni “pie’ sospinto”.

di Duccio Demetrio

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