Cosa sono le biobanche?
Scordatevi cassette di sicurezza e conti correnti: nelle biobanche non ci sono soldi ma materiale biologico. E non sono certo una novità nel panorama scientifico, visto che il lavoro di raccolta di campioni è sempre stato una routine nelle giornate di qualsiasi naturalista: basti pensare agli erbari che oggi sono diventati “banche” dei semi o del germoplasma (che poi non è altro che il materiale genetico, cioè il DNA).
Finché però si tratta di conservare piante (o microrganismi) nessuno si preoccupa, poiché il fine di questi centri di risorse biologiche è la salvaguardia della biodiversità. I problemi cominciano quando a essere messo in banca è materiale che proviene dall’uomo.
Le origini
Nel nostro Paese ci sono 19 enti che partecipano alla BBMRI (Biobanking and Biomolecular Resources Research Infrastructure), una rete europea che si propone di «assicurare accesso sicuro alle risorse biologiche e garantirne una gestione appropriata ai fini del miglioramento della salute dei cittadini europei». Infatti, secondo l’articolo 12 della Dichiarazione universale del genoma umano e dei diritti dell’uomo (UNESCO, 1997): «I benefici dalle scoperte in biologia, genetica e medicina, riguardanti il genoma umano, devono essere resi disponibili a tutti, con rispetto alla dignità e ai diritti di ciascun individuo». E inoltre: «la libertà di ricerca, che è necessaria per il progresso della conoscenza, è parte della libertà di pensiero. Le applicazioni della ricerca, comprese le applicazioni in biologia, genetica e medicina, che riguardano il genoma umano, devono essere volte a eliminare le sofferenze e migliorare la salute degli individui e dell’intera specie umana».
Una definizione ufficiale
Secondo le linee guida stilate nel 2008 da una commissione promossa dalla Fondazione Telethon, la biobanche sono «unità di servizio, senza scopo di lucro diretto, finalizzate alla raccolta e alla conservazione di materiale biologico umano utilizzato per diagnosi, per studi sulla biodiversità e per ricerca». Aggiungerei anche parte di una definizione dell’Università di Maastricht che con biobanca intende «un’unità operativa che fornisce un servizio di conservazione e gestione del materiale biologico e dei relativi dati clinici, in accordo con un codice di buon utilizzo e di corretto comportamento e con ulteriori indirizzi forniti da Comitati Etici e Università». L’aggiunta è d’obbligo poiché il problema principale consiste nel trattamento dei dati personali, la solita privacy insomma.
In Italia
Dei 19 enti membri della rete europea, uno è il network Telethon che coordina 7 biobanche genetiche. Infatti nella maggior parte delle banche si conservano DNA e linee cellulari di persone affette da patologie genetiche, al fine di poter studiare metodi di prevenzioni e cura. La Liguria, con gli ospedali Galliera e Gaslini è ben rappresentata nell’elenco, ed è recente la notizia di una sezione speciale della biobanca del Galliera dedicata alle patologie presenti sul cromosoma 14.
Oltre alle malattie di origine ereditaria sono frequenti le banche che conservano cellule cancerose provenienti da vari organi: il cancro resta ancora una delle malattie più diffuse e difficili da curare, ma proprio grazie a ricerche fatte su materiali depositati e conservati in biobanche, sono stati possibili progressi come nel caso dei geni BCRA associati allo sviluppo del tumore al seno.
La privacy
Abbiamo appena accennato al fattore riservatezza e trattamento dei dati personali: è normale infatti raccontare al proprio medico curante tutto ciò che ci riguarda, il nostro stile di vita, le malattie fatte da noi e dai nostri parenti. E lo diciamo al medico perché certi che manterrà il segreto professionale. Ma se decidiamo di donare a una biobanca del materiale proveniente dal nostro corpo, dovremo associarvi la stessa serie di informazioni che raccontiamo al medico: come verranno gestite tali informazioni? Chi ci garantirà l’anonimato? Per fare una ricerca di qualità più dati sono disponibili migliori saranno i risultati: però dobbiamo fidarci del sistema di gestione dei campioni per evitare scenari che per ora sono comparsi solo nei romanzi, come “Next” di Michael Crichton (2006) in cui un paziente si trova un suo gene brevettato e resta escluso dalla possibilità di prendere decisioni in merito all’uso, o al cinema con “GATTACA” (1997) in cui il mondo è popolato da individui venuti al mondo con tecniche di selezione degli embrioni “migliori”.
Per questo sono nate le reti di biobanche: per garantire l’anonimato ai donatori e permettere al contempo il lavoro dei ricercatori.
Luoghi comuni e prospettive future
Donare il cordone ombelicale alla ricerca è un atto altruistico anche se esistono enti (evidentemente profit) che fanno pubblicità ingannevoli (e chiedono soldi) per avere materiale biologico che, dicono, potrebbe servire in futuro come fonte di cellule staminali ai vostri figli: ebbene, quasi mai funziona così. Anzi, è probabile che nel malaugurato caso che i vostri figli abbiano bisogno di cure particolari queste deriveranno da altre donazioni, non dalla vostra.
Come sottolinea un documento della Commissione nazionale di bioetica: «Oltre ai diritti individuali e nel rispetto della vita privata le biobanche potrebbero farsi strumento di una nuova forma di solidarietà tra gruppi e tra generazioni basata sulla condivisione volontaria di campioni e di informazioni, per una risorsa comune che deve essere disponibile in base a regole di partecipazione democratica».
Come spesso accade in ambiti scientifici che coinvolgono la cittadinanza, appare sempre più opportuno che la comunicazione, sia fatta dai media sia dagli educatori, venga fatta in modo corretto e non allarmistico al fine di creare una popolazione ben cosciente che le scelte di oggi potranno aiutare a risolvere molti problemi di domani.
Doriana Rodino segue il progetto Orizzonte 2020 con gli studenti del Liceo Issel di Finale e sarà relatore dell’Incontro: “Il Futuro in tavola: nutrigenomicae nutraceutica”
sabato 28 maggio 2011, ore 11.00, Primo Chiostro