Antigone, le sue sorelle e Giorgio Perlasca

Anna Segre

Giorgio Perlasca era stato un convinto fascista, ma questo non gli ha impedito di salvare migliaia di ebrei ungheresi con trovate incredibili. Un personaggio davvero inquieto, nel senso migliore del termine. E si potrebbero raccontare molte storie di donne vissute al tempo di Perlasca, moderne sorelle delle bibliche levatrici degli Ebrei, di Batya, di Antigone e di molte altre che disobbedirono a leggi ingiuste. Come quella di Nena…

E’ giusto obbedire a leggi ingiuste?

Non è inquieto chi obbedisce supinamente alle leggi, così come non è inquieto chi le ignora tranquillamente. E’ inquieto, invece, chi avverte un conflitto, una discrepanza, tra le leggi e la propria coscienza individuale: un dilemma che ci è stato narrato fin dall’antichità.

Tutti conoscono Antigone, l’eroina della tragedia di Sofocle che affronta coraggiosamente la morte pur di dare sepoltura al proprio fratello disobbedendo così all’editto del re Creonte, che lo aveva dichiarato nemico della patria. Non sospettavo che i tuoi proclami avessero tanta forza che un qualunque mortale ardisse servirsene per calpestare le leggi degli dei non scritte, incrollabili – dichiara quando viene scoperta.

Nella Bibbia – le levatrici e la figlia del Faraone

Antigone è sicuramente l’esempio più noto, ma non è l’unica. In particolare è interessante ricordare le sue sorelle bibliche; il primo capitolo dell’Esodo ci racconta alcune storie straordinariamente attuali.

Poi il re d’Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle quali una si chiamava Sifra e l’altra Pua: «Quando assistete al parto delle donne ebree, osservate quando il neonato è ancora tra le due sponde del sedile per il parto: se è un maschio, lo farete morire; se è una femmina, potrà vivere». Ma le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto e lasciarono vivere i bambini. Il re d’Egitto chiamò le levatrici e disse loro: «Perché avete fatto questo e avete lasciato vivere i bambini?». Le levatrici risposero al faraone: «Le donne ebree non sono come le egiziane: sono piene di vitalità: prima che arrivi presso di loro la levatrice, hanno già partorito!».

Le levatrici ci offrono l’esempio di un eroismo quotidiano e possibile: non sfidano apertamente il faraone, non fanno dichiarazioni di principio come Antigone. Si limitano a inventare una scusa. Ma già questo permette loro di salvare numerose vite umane. Così il progetto genocida deve prendere altre strade. Il faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo: “Gettate nel Nilo ogni maschio ebreo che nascerà e lasciate in vita ogni femmina”. Su questo editto che sembra inappellabile si chiude il primo capitolo dell’Esodo, ma il faraone non sa che la ribellione più significativa arriverà da qualcuno a lui molto vicino.

 

Il testo biblico è straordinariamente chiaro nella sua estrema sintesi: alla protagonista non viene dato neppure un nome, né si spiega come fosse vissuta fino a quel momento e perché fosse scesa a bagnarsi nel Nilo. Il midrash, la tradizionale interpretazione ebraica, la chiama Batya (figlia di Dio) e spiega che non si trattava di un bagno qualunque, ma di una conversione all’ebraismo: avrebbe cioè scelto consapevolmente di identificarsi con le vittime. E’ un’interpretazione affascinante ma non necessaria, perché la lettera del testo è già straordinariamente pregnante: la figlia del faraone è perfettamente consapevole dell’ordine impartito dal proprio padre, tant’è che, vedendo il bambino che piange, capisce subito chi è e come mai si trova in quella situazione. Decide consapevolmente di violare l’ordine paterno per compassione, un sentimento semplice e naturale, che pare venire per lei prima di qualunque altra considerazione.

Ritrovamento di Mosè

Un uomo della tribù di Levi sposò una donna della stessa tribù. Questa donna concepì e partorì un figlio, e vedendo che era ben conformato lo tenne nascosto per tre mesi. Ma, non potendolo tenere ulteriormente nascosto, fabbricò un cassetta di papiro, la spalmò di bitume e di pece, vi mise dentro il bambino e la depose nel canneto sulla riva del fiume. La sorella del bambino se ne stava a una certa distanza per osservare cosa sarebbe accaduto di lui. Ora la figlia del faraone era scesa per bagnarsi nel fiume; scorgendo la cassettina in mezzo ai giunchi mandò la sua ancella a prenderla. Apertala, vide il bambino che piangeva, ne ebbe compassione e pensò: “Questo è certamente un bambino degli ebrei”. Allora la sorella del bambino disse alla figlia del faraone: “Vuoi che chiami una balia tra le ebree per allattare il bambino?” La figlia del Faraone le rispose: “Vai”. La fanciulla corse a chiamare la madre del bambino. La figlia del faraone disse alla madre: “Prendilo, allattalo per mio conto e ti pagherò” La donna prese il bambino e lo allattò. Quando il bambino fu grandicello lo ricondusse alla figlia del faraone, che lo considerò come proprio figlio.

Antigone suscita commozione per la sua fine tragica, ma in fondo la sua ribellione morale è meno radicale di quella di Batya – si tratta pur sempre di suo fratello. La figlia del faraone disobbedisce al proprio padre per salvare un bambino sconosciuto, appartenente ad un popolo straniero ridotto in schiavitù. E’ meno eroica perché non ci rimette la pelle? Non è detto, anzi, forse il racconto biblico vuole insegnarci proprio questo: che a volte la ribellione contro l’ingiustizia può essere semplice, quasi naturale, e non occorre essere particolarmente eroici per scegliere il bene contro il male. E’ troppo facile immaginare chissà quali conseguenze per giustificare la propria connivenza con l’ingiustizia, come fa il manzoniano Don Abbondio.

Sofocle e la Bibbia insegnano anche che non si può invocare l’ambiente di provenienza come scusante per la propria complicità con il male: Antigone è la nipote di Creonte, e la sua futura nuora, Batya è la figlia stessa del faraone, eppure entrambe scelgono di opporsi.

Nel ventesimo secolo – Perlasca e altri

Lo stesso è accaduto in tempi più vicini a noi: Giorgio Perlasca era stato un convinto fascista, ma questo non gli ha impedito di salvare migliaia di ebrei ungheresi con trovate incredibili che ci sono state raccontate da Enrico Deaglio nel suo libro La banalità del bene.

Un personaggio davvero inquieto, nel senso migliore del termine. Alla fine del libro Deaglio immagina questo dialogo: “Signor Perlasca, Lei era un commerciante italiano. Lei non era parte in causa. Lei avrebbe potuto scappare da Budapest. Perché ha fatto tutto quello che ha fatto?”, Perlasca avrebbe risposto allora con le poche parole che ripete adesso. “Vedevo delle persone che venivano uccise e, semplicemente, non potevo sopportarlo. Ho avuto la possibilità di fare, e ho fatto. Tutti, al mio posto, si sarebbero comportati come me.” Avrebbe forse aggiunto con la sua lenta cadenza veneta: “Si dice in Italia: l’occasione fa l’uomo ladro e di me ha fatto un’altra cosa.”

La storia di Perlasca ci dimostra che sarebbe troppo schematico distinguere un mondo maschile, in cui prevale l’etica pubblica, da uno femminile in cui prevale l’etica individuale. Possiamo comunque raccontare molte storie di donne vissute al tempo di Perlasca, moderne sorelle delle levatrici, di Batya di Antigone e di molte altre. Io sono, nel vero senso della parola, figlia di una di queste storie, e forse per questo ne sono sempre stata affascinata. Fin da quando ero piccola i miei nonni e mio padre (allora bambino di sei anni) raccontavano della Nena (Caterina Dho), la tata che li aveva nascosti in casa propria per qualche mese alla fine del 1943 e aveva poi tenuto i contatti necessari per organizzare la loro fuga in Svizzera; più tardi ho saputo  che la Nena era penetrata di notte negli uffici comunali di un paese e aveva fabbricato di nascosto carte d’identità false per tutta la famiglia. Immagino che per una brava ragazza ventenne non sia stata facile la decisione di correre un simile rischio, per di più contro la legge. Senza l’inquietudine che l’ha spinta ad agire io non sarei qui a scrivere sulle sue sorelle più antiche.

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