Filosofia pendolare: Intervista a Francesca Rigotti

Graziella Arazzi

Incontriamo Francesca Rigotti nella nicchia di Italia in cui si radica in piena estate, a Ghiffa, sulle sponde piemontesi del Lago Maggiore. Sullo sfondo  di giardini pensili e nel silenzio della pietra la filosofa pendolare – come ama definirsi – è un turbinio di idee e di immagini che si concretizzano in seminari, laboratori, quasi che il pensiero filosofico voglia allargarsi nell’oceano della vita quotidiana.

Francesca Rigotti insegna Dottrine politiche presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Lugano. La sua ricerca è caratterizzata dall’interpretazione delle metafore e dei simboli che si sedimentano nel pensiero filosofico, nel ragiona-mento politico, nella pratica culturale e nell’esperienza culinaria. Tra le sue pubblicazioni recenti: L’onore degli onesti (Milano 1998); La filosofia in cucina. Piccola critica della ragion culinaria (Bologna 1999); Il filo del pensiero (Bologna 2002); La filosofia delle piccole cose (Novara 2004 e 2005); Il pensiero pendolare (Bologna 2006); Il pensiero delle cose (Milano 2007), La famiglia, gli affetti familiari e il “ragionevole pluralismo” delle democrazie liberali (“Iride”, n.50, gennaio-aprile 2007). Insieme a Giuseppe Ferraro e con introduzione di Remo Bodei ha pubblicato Agli estremi della filosofia (Mantova 2005).  Per Guerini e Associati, nel 2006, ha curato il volume, frutto di un seminario, La vita straordinaria. Analisi e comunicazione del quotidiano.  Collabora alla pagina “Scienza e Filosofia” de “Il Sole 24Ore”. Partecipa  alle edizioni del Festival della Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo.

1. Tra un the sul piccolo terrazzo e la parola che scivola sulle meraviglie di artisti che lavorano con stoffe e fili, mi ritaglio uno spazio e chiedo a bruciapelo:  – Che cosa pensi dell’inquietudine?

Vorrei parlarne in base alle mie competenze, che sono prevalentemente filosofiche, guardando però anche alle metafore del linguaggio. Da una prospettiva di storia del pensiero,  quello dell’inquietudine dell’animo umano è uno dei grandi temi della filosofia, da Agostino ai filosofi esistenzialisti e oltre. Tutti hanno infatti notato che sul fondo dell’animo vibra un senso continuo di insoddisfazione, una specie di soglia di inquietudine : finché questa rimane a un livello basso, è tollerabile e persino positiva, giacché costituisce una molla all’azione e al mutamento e se possibile al miglioramento delle proprie condizioni. Quando però il livello dell’inquietudine sale troppo in alto, provoca una situazione di malessere che può trasformarsi in dolore intenso. All’estremo opposto però che cosa abbiamo? La quiete eterna (requiem aeternam), la morte, il riposo perenne implorato dalla preghiera cristiana per i morti. Secondo il filosofo e teologo Agostino la quiete dell’animo si raggiunge riposando nel signore (inquietum est cor nostrum donec requiescat in te). E chi non crede e se la deve cavare con le sue povere risorse umane, dove troverà conforto e riposo?

2. Quiete eterna, moto perpetuo. La vita oscilla dunque tra questi estremi?

Sicuramente sì, proprio come nell’oscillazione del pendolo. Ma non arriverei al pessimismo di Schopenhauer che sosteneva che la vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. La vita, quasi ogni vita,  è probabilmente un po’ più allegra e conosce istanti migliori che non solamente noia e dolore, come pure la vita di Schopenhauer li conobbe.  La vita è moto e quiete, attività e riposo in giusta misura (anche se oggi abbiamo invertito i poli, dal momento che ci agitiamo in vacanza e stiamo seduti e fermi  al lavoro mentre prima la vacanza era il riposo e il lavoro la fatica del movimento. Il settimo giorno anche il  creatore si riposò, non andò certo a correre o ad arrampicarsi sulle rocce come facciamo noi). Credo che una vita di solo riposo e di esclusiva quiete, in senso letterale e in senso metaforico, sia una specie di vita da morti, se mi è concessa la contraddizione. Meglio un poco di sana inquietudine all’appagamento totale e perenne: non è forse preferibile alzarsi da tavola con un filo d’appetito che non completamente satolli e ripieni?

3. A che cosa ti riferivi quando accennavi alle metafore dell’inquietudine?

Mi colpisce il fatto che per rappresentare stati d’animo ed emozioni ci serviamo di termini presi dallo stato fisico di un corpo, come l’essere tranquillo o agitato, in tempesta o in quiete, caldo o freddo, morbido o duro e rigido, ruvido o liscio, sereno o ombroso e scuro,  ecc. D’altra parte, dove prenderemmo le parole per parlare dei sentimenti, che non si vedono e non si toccano, se non dagli oggetti che ci circondano, quelli sì invece visibili, tangibili e palpabili? Per esempio, uno stato d’animo viene definito inquieto o agitato prendendo a prestito la condizione del mare squassato dal vento e dalle onde. Le acque marine, sempre mobili e inquiete, a noi esterne, ci hanno offerto e ci offrono la possibilità di parlare della nostra mobilità, agitazione e inquietudine interna. Il mare in tempesta ha sempre spaventato fin da tempi antichissimi il navigante, che vi ha collocato mostri e demoni, dal Leviatano a Moby Dick. Ma anche la bonaccia, la quiete delle acque e dei venti, è uno stato che l’antico navigatore ha sempre temuto: la bonaccia costringe la nave di Ulisse all’immobilità che porterà poi alla perdita di tutti i compagni di viaggio, così come la tempesta causata dai venti sprigionatisi dall’otre di Eolo respingerà la nave da dove era venuta, ostacolandone la navigazione. Anche per l’inquietudine del mare come per quella dell’animo vale lo stato di medietà tanto lodato da Aristotele: né troppo né troppo poco.

4.      A proposito di Aristotele e per tornare alla filosofia, non si potrebbe cercare lì consolazione agli affanni della vita, affinché il cor nostrum inquietum requiescat?

Quello che tu proponi corrisponde di fatto a una pratica già esistente: si tratta di una proposta, nata una ventina d’anni fa da una costola della filosofia e chiamata counseling filosofico: un tipo di relazione d’aiuto in cui il consulente fa luce sulla «filosofia di vita» di una persona e la discute con lei in un dialogo razionale, «filosofico» appunto, che dovrebbe offrire una cura ai problemi dell’esistenza.

La pratica, che si sta diffondendo sempre più e che conosco però soltanto per informazione libresca, quindi indiretta, è sostenuta da filosofi come Umberto Galimberti e criticata da altri come Giulio Giorello, che preferisce affidare alla filosofia la funzione di stimolare e pungolare l’animo come il tafano di Socrate, piuttosto che di placare il tormento esistenziale. Personalmente propendo per la seconda posizione, anche se non vorrei ergermi a giudice o a severa fustigatrice di costumi. Se la «terapia filosofica» coi suoi strumenti fosse veramente in grado di aiutare qualcuno a uscire da un’eccessiva inquietudine che gli provoca dolore e sofferenza acuti, perché non «prendersi cura»  di lui o di lei, secondo l’esortazione rivolta dello stesso Socrate ai suoi discepoli poco prima di morire per effetto del veleno della cicuta: «sacrificate un gallo a Esculapio e prendetevi cura di voi»?

 5. Qual è un pensatore emblema dell’inquietudine?

 Prenderei come autore emblematico proprio l’Agostino delle Confessioni, nonostante la sua  dichiarazione di principio nella quale il cuore trova quiete nel signore. Agostino cerca, si tormenta, indaga, si ripete quella frase come per autoconvincersene. E accanto a lui metterei  una pensatrice contemporanea, María Zambrano, credente come Agostino ma come lui inquieta nell’animo e nel corpo, che si spostò continuamente, a Cuba, in Messico, a Parigi, a Roma, a Ginevra per tornare a morire nella sua Spagna; come Agostino che dalle coste dell’Africa si recò a Roma, a Como, a Milano, poi ancora in Africa come se la ricerca di Dio si accompagnasse in lui alla ricerca di un luogo fisico dove potersi posare e riposare.

6. E tu, delle tue opere, soprattutto le più recenti, quale consideri la più «inquieta»?

Ce ne sono due cui attribuirei la palma del primato: Il filo del pensiero, del 2002 e Il pensiero pendolare, del 2006. In entrambe si parla, soprattutto per immagini, dello stesso tipo di movimento, della spoletta del telaio nel primo caso e del pendolo che oscilla, nel secondo. E’ un movimento «avanti e indietro», «andata e ritorno», alla ricerca continua di qualcosa che soddisfi almeno un poco quel fondo di perenne inquietudine. E’, trasferito sulle immagini della spoletta e del pendolo, il movimento mio, che oscillo e vado avanti e indietro tra tre paesi, la Germania dove prevalentemente abito, la Svizzera dove insegno, l’Italia dove ho il cuore e gli amici, sempre inquieta e sempre desiderosa di fermarmi, ma dove, se non so più qual è il mio luogo e il luogo della mia quiete esteriore e interiore, perché in ognuno di essi c’è molto ma qualcosa sempre manca?

Un interrogativo che può essere raccolto solo da “un pensiero accogliente […] nel quale ci sia posto per tutti, per il figliuol prodigo, per i figli virtuosi e per la figlia ribelle” (F. Rigotti, Il pensiero delle cose, Milano, Apogeo, 2007, p.17).

L’intervista è stata pubblicata su La Civetta della Liguria d’Occidente  n. 5/2007)
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