È sufficiente dare uno sguardo anche rapido e distratto al dipinto La sinfonia per avere la percezione che in quell’apparente caotico ensemble ogni singolo musicista, ogni singolo strumento, ogni particolare è funzionale all’equilibrio dell’intera forma.
Max Oppenheimer ha così fotografato Gustav Mahler durante la prova della sua Quarta Sinfonia con i Wiener Philarmoniker.
O meglio, dapprima cattura l’istantanea nella sua testa; quindi nel corso dei lunghi anni d’esilio a New York sviluppa l’immagine su tela. Ciò che ha impressionato fortemente il negativo cerebrale dell’artista viennese è la forza concentrata su un punto (Mahler) e distribuita su tutto il piano (orchestra).
È un flusso di energia che avvolge, un movimento che accoglie, un unicum di dirompente impatto emotivo.
Ed ogni elemento del dipinto ha un ruolo che prescinde dalla posizione del fulcro. Non c’è distanza dal direttore bensì vicinanza con ciascuno. È la musica, signori miei, la forza di un’orchestra.
L’esecuzione di un’orchestra.
La magia di un momento che svanisce nell’aria ma resta impresso nella mente. Quando il direttore svolazza – più o meno platealmente – vediamo la semplicità di un gesto che cela la complessità di un pensiero. Difficile spiegare la sensazione che si prova quando la bacchetta del direttore chiude il movimento e il breve silenzio separa l’ultima nota dal primo applauso.
È una frazione temporale in cui il musicista gode di quel nulla mentre lo spettatore assapora il tutto che lo ha preceduto.
Quello spazio è la vera fusione tra artista e pubblico, la con-fusione dei ruoli fortemente cercata che, non appena trovata, testimonia il buon fine di un esecuzione cioè il risultato di un percorso in cui i ruoli sono invece perfettamente delineati.
Il maestro d’orchestra si carica del lavoro più duro, concettuale e pratico. Il professore d’orchestra accoglie questo lavoro, lo condivide e prende atto della propria parte.
Per tacere delle maestranze, anch’esse fondamentali.
Il pubblico raccoglie il frutto del lavoro e lo porta con sé.
Ma come dice Herbert von Karajan: “Un’orchestra, se sta funzionando nel migliore dei modi, è un’unità creativa. Un gruppo di uomini e donne che arrivano al punto di ricreare insieme qualcosa che è bello”.
Ed è a questo punto che il ruolo svanisce.
Del grande Arturo Toscanini si narrano storie che, come accade per i miti, sconfinano nella leggenda. Pare che durante una prova d’orchestra si rivolse ad un violinista con lo strumento scordato ed inveì contro di lui gridando “Tu! Assassino!”.
Toscanini aveva a cuore il bene della musica e sapeva bene che un solo strumento scordato avrebbe reso vano gli sforzi di ciascuno.
E quindi il risultato di tutti.
Ognuno con le proprie caratteristiche e con la consapevolezza di avere definita l’indefinibile leggerezza di un ruolo che deve sostenere.
Sul palco come nella vita.
“Questo libro l’ho imparato dai miei allievi. Quando insegnavo, non cercavo mai di dire all’allievo solo quello che sapevo, ma semmai quello che lui non sapeva (…) è nato così questo libro. Gli errori che i miei allievi commettevano a causa di mie indicazioni insufficienti o sbagliate mi hanno insegnato a dare indicazioni esatte (…) Se avessi loro detto solo quello che so, ora saprebbero quello e nient’altro. Può darsi che sappiano ancor meno, ma sanno di certo qual è la cosa che veramente conta: la ricerca!” (Arnold Schoenberg – dalla prefazione di Manuale di armonia – tradizione e rinnovamento nel linguaggio musicale)
di Dario B. Caruso