Un nuovo paradigma per comprendere l’Aldilà

Giuliano Boaretto

La morte è il limes, il confine da varcare per conoscere quel che v’è al di là. E’ inutile parlare, secondo Withgestein, di ciò che non ha parole per essere descritto. Forse per comprendere la morte e l’aldilà l’uomo dovrebbe sintonizzarsi su nuove dimensioni cosmocentriche.Oppure ognuno di noi, “fragile fibra dell’universo”, potrebbe immaginarsi di trovare oltre l’orizzonte ciò che desidera. Parlare della morte è come affrontare un grande mare oceano senza avere né barca né vela ma, tuttavia, è salutare parlare del complemento e compimento del vivere.
La morte è l’orizzonte della vita da varcare per conoscere l’Aldilà
Il limes è un confine ed il confine è quella cosa che l’uomo ha creato per essere infranto. Ogni confine presuppone un territorio esterno che va visitato, conosciuto, svelato. Così  è per la morte, un manufatto, un arte fatto da chi è al di qua del confine, un orizzonte della vita che tutti dobbiamo varcare se vogliamo conoscere quel che v’è al di là:  l’Aldilà appunto! Se la morte è l’orizzonte della vita, la vita è l’orizzonte della morte, un sofisma caro ai Megarici (ricordate Achille e la tartaruga?) che diviene realtà quando parliamo della nostra morte, del nostro morire individuale.
In fondo è la nostra morte o quella delle persone a noi care, che ci consente di varcare il confine e di porci il problema del dopo.
Certo ogni discorso sulla morte è un discorso di viventi e da viventi e poiché la mappa non è il territorio (Bateson) noi costruiamo la nostra visione del mondo come costruiamo l’Aldilà: se la vita è un manufatto anche la morte è un manufatto.
Se i proverbi dicono che polvere siamo e polvere torneremo ad essere, dicono anche che nulla si crea e nulla distrugge. Ma nell’istante del morire personale a che serve la saggezza dei libri sacri!?
Siamo il frutto di una cultura antropocentrica che sente la necessità di pianificare
Withgestein direbbe che è inutile parlare di ciò che non ha parole per essere descritto. Eppure da secoli continuiamo a parlare della morte e dell’aldilà, da secoli l’umanità continua a descrivere ciò che non conosce e, forse, non conoscerà mai, perché per conoscere la morte bisogna viverla e cioè essere morenti. Questa necessità di essere nell’Aldilà per descrivere la Morte che è un fenomeno di passaggio da uno stato ad un altro stato ci impedisce di descrivere un essere nel non essere. La scienza crede di sapere cosa accade prima della vita, la filosofia sapere cosa è il non essere prima dell’essere, ma noi non ricordiamo né cosa eravamo prima di nascere né cosa saremo dopo la morte.
Ricordiamo è parola che implica un evento avvenuto nel tempo, ma prima della nostra nascita non v’era tempo come non v’è tempo dopo la nostra morte.
La consolazione è che la vita continua anche senza di noi, prima e dopo noi.
In fondo siamo frutto di una cultura antropocentrica e autoreferenziale che vive ciò che non è umano come caos e perciò ha bisogno di pianificare, di ordinare, di colmare il nulla del nulla che noi scambiamo con il non pensiero.
L’uomo avrebbe bisogno di sintonizzarsi su nuove dimensioni cosmocentriche
Forse per comprendere la morte e l’aldilà avremmo bisogno di un nuovo paradigma cognitivo, di un salto di campo.
Abbiamo forse bisogno di sintonizzarci su nuove dimensioni cosmocentriche superando l’opzione di un pensiero umano che distrugge sé stesso.
Certo il paradigma antropocentrico connota la cultura occidentale dopo la grande rivoluzione Copernicana, ma oggi dopo la rivoluzione cristiana e quanto-probabilistica ha ancora senso questo individualismo autistico La cultura occidentale non ha ancora fatto proprio il nuovo paradigma se non in qualche limitato settore tecnico, per altro relativo alla comunicazione. Il pensiero Khun o di Lakatos ha solo scalfito il nostro pensare quotidiano, anche se siamo abituati a usare la televisione, il telefonino, gli automi elettrodomestici, il satellitare. Ci chiediamo, ancora come J Verne, se sugli altri pianeti vi sia vita o leggiamo con un sorriso compiaciuto i libri di fantascienza.
Ma i pensieri, le speranze fanno parte della realtà come le leggi scientifiche, le cose, gli altri …… Tutto vive nel grande flusso della consapevolezza collettiva….. anche l’inconscio collettivo.
Al di là del limes ognuno può immaginare di trovare quello che desidera
Con una coscienza panoramica possiamo vederci vivere e morire, possiamo sentirci parte del grande flusso, dell’immenso fiume che sbocca nell’oceano della Morte o meglio di quella che noi “fragili fibre dell’universo” (Ungaretti) definiamo la morte.
E al di là del limes ognuno trova quello che vuole: chi il giardino dell’Eden, chi il paradiso delle Urì chi il nulla, chi il tutto. Nessuno sino ad oggi attraversato il Lete è mai tornato a descriverci l’indescrivibile altrove.
Come nel teletrasporto. Potremmo trasferirci in un altro mondo ma non possiamo più tornare indietro.
La scienza ci insegna che esistono più dimensioni, che l’universo è un pluriverso parallelo, ma che i diversi universi comunicano tra di loro, per ipotesi, attraverso dei “vermi” (wormols). Possiamo immaginare l’aldilà attraverso i vermi, così come possiamo immaginare il mondo aldilà di un buco stellare, non visitarlo, non misurarlo non tornare indietro, eppure continuiamo a studiarlo.
Forse potremmo pensare al morire come ad una cerniera tra due campi energetici, l’uno dei due conosciuto, l’altro solo conoscibile.
Quando fu chiesto al Buddha se gli dei esistevano e se l’anima sopravvive al corpo rispose: ricordatevi fratelli perché il Beato non vi ha mai parlato né di dio né degli uomini e il settimo patriarca del buddismo zen risposte alla domanda bhu (che equivale a “ma” ).
“La grande morte che ognuno ha in sé, è il frutto, attorno a cui ogni cosa ruota”
Parlare della Morte è come parlare dell’infinito di cui intravediamo la luce, ma non riusciamo a vedere l’essere, un grande mare oceano che dobbiamo affrontare, ma non abbiamo né barca né vela, come dice un alto rituale massonico.
Eppure, ciò nonostante è salutare parlare di morte che non è l’opposto della vita, ma è il complemento (e il compimento) del vivere.
Il campo della vita si sfrangia in periferia e incontrando il campo della morte, crea energia come al di là del buco nero nasce (forse) una “nuova” stella.
Come ha scritto  Rilke “poiché noi siamo solo la buccia e la foglia, la grande morte che ognuno ha in sé, è il frutto, attorno a cui ogni cosa ruota”.
Le religioni  monoteiste ci propongono la reincarnazione, la rinascita come premio, le religioni orientali considerano la rinascita un percorso di perfezionamento necessario per esaurire  il proprio karma (la legge della causa e dell’effetto) entrambe comunque seguono un percorso necessario per l’eternità.
La medicina ci fa sperare che vivremo per più di cent’anni, forse novecento come i personaggi biblici, ma siano dieci, cento o mille i tempi della sopravvivenza, spero ardentemente di morire quando il mio contributo al pensiero collettivo sarà finito e di me non resterà che il ricordo per un breve tempo: così adempirò il mio compito, il mio dharma e rientrerò nell’inconscio collettivo che è il grande mare oceano infinito.
E ciò perché il grande amore per la vita mi fa sperare che rinascerò per una nuova esperienza, sino a che non mi sarò liberato dell’amore per il tutto.
A presto rivederci …….. ipocriti lettori così simili a me (Boudelaire)
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