A dieci metri sopra a un tetto. Capitalismo nomade e liquidazione del lavoro

Massimiliano Vaira
La dissoluzione del rapporto fra capitale e lavoro ha portato attualmente ad un capitalismo nomade, caratterizzato dall’assenza di limiti e di responsabilità: l’attuale crisi ha semplicemente evidenziato questa situazione ormai consolidata. Molte aziende, pur distribuendo dividendi agli azionisti, pongono in cassintegrazione i lavoratori. E sopra i tetti delle fabbriche va in scena la liquidazione del lavoro e di tre generazioni di lavoratori, in nome di un nuovo capitalismo che sfrutta luoghi e risorse considerando i lavoratori semplici variabili contabili, privi di ogni dignità.
La dissoluzione del rapporto fra capitale e lavoro
Le cronache della crisi economico-finanziaria ci hanno consegnato un’immagine quanto mai cruda, vivida e oggettiva di quali siano i rapporti tra capitale e lavoro. Da sempre i due termini sono stati contrapposti, ma per ciò stesso bisognosi l’uno dell’altro e quindi costretti in qualche modo e misura a collaborare e a convivere. Oggi, però, l’ipercapitalismo, dopo essersi affrancato dalla nazione (il territorio) e dalla politica (lo stato nazionale) ha rotto anche l’ultimo ormeggio che in qualche modo lo legava: il lavoro.
L’immagine e la prova dell’avvenuta dissoluzione del rapporto ce la stanno offrendo quelle migliaia di lavoratori che hanno costituito presidi di fronte ai cancelli delle fabbriche, che le hanno occupate, che hanno manifestato. Ma forse più di tutti, ce la offrono quei lavoratori che sono saliti sopra i tetti delle fabbriche, delle aziende, dei centri di ricerca per affermare che essi esistono, che non sono variabili contabili, che sono, prima che forza lavoro, esseri umani con una dignità che viene loro negata.
Il capitalismo nomade e l’assenza di limiti e di responsabilità
Il capitalismo nella fase attuale si è reso mobile e volatile, può fare a meno del luogo e dei confini che esso implica; in una parola è divenuto nomade. Il carattere nomadico porta con sé altri due aspetti tra loro connessi: 1) l’assenza ontologica, prima che fisica o materiale, di limiti. Il nomade non ha virtualmente limiti di spazio e di mobilità, limiti posti da qualche tipo di vincolo, limiti alle proprie decisioni. Se non quelli che egli stesso si pone; 2) l’irresponsabilità verso il luogo. Il nomade rimane in un luogo fino a che questo gli offre risorse per condurre la sua vita. Egli non ha alcun sentimento di obbligo, o responsabilità, verso quel luogo. Lo usa, dopodiché lo abbandona per un altro.
L’essenza nomadica del capitalismo odierno fa sì che esso si muova da un luogo all’altro senza alcun senso di responsabilità, se non quello verso sé stesso di sfruttare il luogo e le sue risorse per produrre profitto. Decidere di chiudere una fabbrica diventa un mero calcolo contabile. Che ci vadano di mezzo persone, le loro famiglie e il loro futuro è né più né meno che un danno collaterale della contabilità aziendale. E così l’assenza di limiti e di responsabilità di una parte si traduce in creazione di limiti esistenziali di ogni genere per l’altra.
La crisi ha semplicemente evidenziato una situazione già consolidata
Qualcuno potrebbe obiettare che è stata la crisi a produrre ciò a cui stiamo assistendo. Questa è una rappresentazione buona per anime belle. In primo luogo, la crisi non ha prodotto questo stato di cose: le ha rese incontrovertibilmente visibili. Quello che vediamo oggi non è una novità: era già lì prima, bastava riconoscerlo per (pre)vederlo. In secondo luogo, ammettiamo pure che sia stata la crisi a produrre il disastro. Ma chi è che ha provocato la crisi? Imputare alla crisi gli effetti che vediamo è come imputare ai sintomi la malattia. In terzo luogo, se è vero che molte aziende, spesso le medio-piccole, chiudono per la crisi, lasciando nel dramma lavoratori e imprenditori, è altrettanto vero che molte altre utilizzano la crisi come giustificazione per chiudere e spostarsi, nonostante il loro stato di salute sia buono.
Dividendi agli azionisti, cassintegrazione ai lavoratori
Yamaha Italia, Eutelia, Glaxo, Alcoa, FIAT-Termini Imerese. Queste sono alcune aziende che hanno visto i propri dipendenti protestare e salire su un tetto. Tutte aziende che non stanno così male quanto a bilanci, commesse e fatturati. Facciamo qualche esempio. FIAT ha chiuso l’annus horribilis distribuendo 244 milioni di dividendo agli azionisti. La giustificazione è stata: “Lo dovevamo agli azionisti”. E ai lavoratori di Termini Imerese e ai cassintegrati cosa gli si deve? Eutelia e le varie scatole cinesi di cui è composta ha grosse commesse da aziende come Telecom, ma non paga da mesi i suoi dipendenti. Pirati dell’economia si dirà, ma tant’è. La Glaxo è una multinazionale farmaceutica che nel 2009 ha venduto prodotti per oltre 9 miliardi con un utile di quasi 3 e chiude i suoi 5 centri di ricerca  europei (di cui uno in Italia) per andare in Cina. Perché sono più bravi là? No, perché ci sono prospettive che lo diventeranno, ma intanto costano meno e poi pare che gli azionisti (di nuovo loro!) non siano abbastanza contenti.
Sopra i tetti va in scena la liquidazione del lavoro
Ecco, su quei tetti non sta andando in scena solo una protesta. Sta andando in scena la liquidazione del lavoro. Liquidazione nel duplice senso di liquefazione dell’ultimo vincolo del capitale nomade e di eliminazione di un orpello inutile e gravoso, un po’ come quando si liquida la merce invenduta e ormai passata di moda. La prova che sia il lavoro in generale ad essere liquidato è che quelle persone sui tetti sono operai, ingegneri, ricercatori. Le classi non c’entrano. Il conflitto non è tra capitalisti e proletari, ma tra capitalismo nomade e lavoro.
Su quei tetti non ci sono solo questi lavoratori: ci sono anche le loro famiglie, certo, ma ci sono anche almeno tre generazioni coinvolte: i 40-50enni non re-impiegabili, i 20-30enni precari, gli under 20 che forse non avranno nemmeno un lavoro precario. Su quei tetti, questi lavoratori, non fanno una lotta solo per il loro lavoro e il loro futuro. È una lotta per il lavoro e il futuro di tutti. Liquidando il lavoro, si liquida anche il futuro di tutte queste generazioni. È una questione di civiltà, nel senso più alto del termine. Civiltà che il capitalismo nomade e la sua ideologia ha messo in crisi, come ha sottolineato recentemente il sociologo torinese Luciano Gallino.
Quando mio padre ha dovuto lasciare la miniera era perché stavano nascendo le fabbriche, il mondo cambiava, ma c’era un posto per lui. Ecco per noi non c’è più posto” (operaio dell’Alcoa). “Il futuro non è più quello di una volta” (scritta su un muro). Queste due frasi riassumono meglio di qualsiasi analisi quello che sta accadendo.
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